Il teatrino dopo una tornata elettorale amministrativa è più o meno sempre il solito: chi ha guadagnato nelle città prende il risultato come il famoso “trend” che si riverbererà sulle elezioni nazionali, chi ha perso ridimensiona tutto a fattore locale che non avrà ricadute sul quel quadro.
Naturalmente una valutazione obiettiva dovrebbe riportare tutto nei parametri specifici della dialettica politica: guadagnare posizioni in città significative è importante, sia perché galvanizza un po’ i sostenitori, sia perché comunque si tratta di situazioni con dei poteri, ma non significa avere fatto cappotto; perdere non vuol dire infilarsi in una china obbligata, perché a livello nazionale i fattori che entrano in gioco sono diversi da quelli che determinano gli esiti locali, ma sottovalutare che comunque perdere denuncia debolezze è totalmente sbagliato.
L’opposizione al governo, che giornalisticamente ormai si definisce “campo largo” perché parlare di centrosinistra non è più opportuno, ha conquistato una posizione importante, come è la città di Genova, ed ha mantenuto un tradizionale feudo del vecchio PCI come è Ravenna. Non sono cose banali, ma vederle come il sorgere di una stabile coalizione che tiene insieme tutti è quanto meno prematuro. La pretesa che il successo dipenda dalla politica della segretaria Schlein è infondata: la sua opzione per essere “testardamente unitari” al momento non va oltre il banale calcolo che, per dirla con Totò, è la somma che fa il totale, per cui se vuoi avere possibilità di vittoria devi mettere insieme molti, ma molti voti.
Questo ragionamento è talmente lapalissiano che convince tutti, dopo aver toccato con mano, proprio nel caso delle regionali in Liguria, che fare gli schizzinosi sulle ortodossie dei componenti non porta bene. Però va aggiunto che il prezzo per giungere a questo risultato è stato puntare su una candidatura “civica”, molto poco connotata dal punto di vista dei partiti, che adesso devono trovare il modo di governare insieme rinunciando alle ambizioni delle rispettive “curve”. Si pensa che a livello locale sia più semplice trovare mediazioni essendoci meno impatto delle ideologie, ma è tutto da dimostrare.
Ravenna non fa testo da questo punto di vista perché in quel contesto è accaduto l’opposto: la leadership è strettamente nelle mani del PD, vorremmo dire in quanto erede di un fortissimo insediamento storico del PCI romagnolo, e gli altri partiti hanno semplicemente capito che
se volevano sedersi a tavola quella leadership dovevano accettarla, tanto avrebbe vinto anche se qualcuno di quel “campo largo” si fosse tenuto fuori. Sarà da vedere se qualcosa di simile si potrà avere a livello nazionale: ci sembra improbabile.
Verrebbe da concludere che se il “campo largo” vuole usare i buoni risultati delle recenti amministrative deve affrontare il tema di come può diventare una coalizione che torni ad essere realmente di centro-sinistra. Sarà un cammino arduo perché tocca tutta la precaria sistemazione che si è avuta negli ultimi anni da quelle parti e, come sempre, quando si mette in discussione lo stato del potere nei vari partiti non si può risolvere tutto con qualche spiritosa invenzione retorica.
I problemi non sono minori nel destra-centro. Anche qui si è visto che è difficile prevalere se non si accetta di fare spazio a candidature che per pudore si definiscono “civiche”, cioè non connotate da militanze nei furori ideologici di quella coalizione. Verrebbe da dire, Bolzano doceat, per citare un caso che sventolano i leader di FdI. La generale bulimia di potere dei due partiti caratterizzanti della destra, quello della Meloni e quello di Salvini (per FI il discorso è diverso), si rivela sempre più una palla al piede della attuale coalizione di governo, la cui presa a stare ai sondaggi è ancora forte, ma perché quelli valutano genericamente le tendenze indistinte, mentre le cose poi cambiano quando ci si dovrà misurare con le personalità dei singoli candidati da mettere in campo.
Su questo terreno il destra-centro è debole, perché non riesce a capire che se vuole stabilizzare il consenso nazionale e possibilmente allargarlo deve dismettere gli spiriti di fazione e le stupidaggini che ha assorbito dalla sua propaganda quando era all’opposizione, cioè che i vecchi partiti dominanti si spartivano il potere premiando i loro portaborse e per questo vincevano. Non era così, se non nella fase di decadenza, quando infatti hanno perso consenso e legittimazione.