Sembra che il dibattito politico si cristallizzi in una contrapposizione abbastanza stucchevole intorno alla questione del voto al referendum del prossimo 8 e 9 giugno. In testa c’è la diatriba se sia legittimo o meno dal punto di vista etico-politico astenersi dalla partecipazione alla consultazione (giuridicamente non c’è nessun obbligo di recarsi alle urne).
La questione è mal posta: poiché il referendum è la richiesta che una quota, nemmeno tanto cospicua, della popolazione rivolge al corpo elettori invitandolo ad esprimersi su delle domande poste da essa, la risposta può ovviamente essere anche quella del “non riteniamo rilevanti le problematiche poste”. Il fatto che per essere valido il risultato sia richiesta una partecipazione ampia conferma la possibilità legittima di esprimersi anche con l’astensione.
Naturalmente c’è il problema che l’astensionismo pesca non solo nel rifiuto consapevole dell’operazione che interessa i promotori dei quesiti referendari, ma nel più vasto fenomeno della indifferenza di quote molto ampie della popolazione per la partecipazione alla vita politica.
Si tratta di un dato che i promotori conoscevano molto bene (pochissimi referendum hanno negli ultimi vent’anni raggiunto il quorum per la validità) e dunque hanno coscientemente voluto fare dell’agitazione politica fine a sé stessa e non un’operazione che potesse creare dei risultati.
La fondatezza di questa affermazione è piuttosto evidente già dal fatto che neppure il fronte sindacale è compatto sull’operazione voluta da Landini e dalla CGIL: la CISL non la condivide, nella UIL non mancano perplessità.
Le ragioni per cui la segreteria del PD si è sdraiata sulle posizioni del leader del maggiore sindacato, prendendo posizione contro leggi che erano state promosse dal partito ai tempi della segreteria Renzi (senza praticamente opposizioni), si collocano tutte nella lotta di correnti interna al partito e nella volontà del gruppo dirigente riunito intorno alla segretaria Schlein di esplicitare che adesso il partito ha una nuova identità “di sinistra” (vera a loro giudizio) e che pertanto sono legittimati a dare loro la linea politica senza confronti interni.
A questo punto tutto è diventato una schermaglia politica, che a noi, francamente, appare senza senso. Landini e Schlein non puntano a vincere (se accadesse il miracolo certo non dispiacerebbe loro, ma sanno che è difficilissimo), vogliono semplicemente “far vedere” che sono tanti e che nessuno può esibire così tanti consensi nel campo ex largo dell’opposizione. Non si pongono il problema che riusciranno forse a dimostrare una certa moltitudine di seguaci, ma non sufficiente a trasformarsi in una vera forza politica che pesa come alternativa di successo all’attuale governo. Corrono per di più due rischi: il primo è che si apra una competizione su chi sarà il leader dell’opposizione alle prossime elezioni politiche, se Landini o Schlein; il secondo è che il PD si spacchi perché non sappiamo quanto a lungo l’ala riformista possa accettare la sua crescente marginalizzazione e irrilevanza (un molto piccolo segnale c’è già stato, con la decisione di quadri significativi di quella componente di non accettare il diktat della segretaria di votare contro le riforme dell’età di Renzi, che, invero, non furono frutto solo di una sua scelta).
La maggioranza di governo ha ovviamente tutto l’interesse ad infilarsi in questa diatriba. Non che dimostri davvero l’occhio lungo, perché sottovaluta che contrapponendosi frontalmente alla partecipazione affronta anch’essa alcuni rischi. Infatti, considerando che tutti sanno quanto l’astensionismo non sia mobilitato dagli inviti delle segreterie di partito, sarà difficile che il mancato raggiungimento del quorum venga interpretato come prova del consenso di cui gode la maggioranza di destra-centro. In secondo luogo, facendo dell’astensionismo una scelta politica a favore della sua parte, spingerà un certo numero di elettori che non vogliono essere catalogati in quel modo a recarsi alle urne per mostrare la loro militanza in un campo diverso. Questo non servirà probabilmente a far raggiungere il quorum, ma darà comunque un contributo alla prova di forza agitatoria dei promotori del referendum. Per il destra-centro sarebbe stato più scaltro stare semplicemente a guardare.
Bloccare la vita politica italiana in un momento delicatissimo come questo su schermaglie politiche che interessano i giochetti pseudoidentitari di alcuni gruppi dirigenti ci pare davvero grave. Le prove sul fronte internazionale crescono e grande sarebbe l’importanza che l’Italia mostri in esse la statura complessiva di una classe dirigente un po’ più matura dei reduci intellettualmente sopravvissuti dell’età degli scontri studenteschi e operaisti.